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Benny Nonasky |
di Benny Nonasky
(Benny
Nonasky) – “Leggere poesia la emoziona meno di un tempo?
Dipende dalla poesia. Se si tratta di poesia araba, la mia risposta è sì. Mi
tocca e mi sorprende meno di un tempo. Sono diventato più esigente, e la poesia
araba ha perso la capacità di stupire. Si è un po’ standardizzata. Quando però
leggo certi poeti stranieri, soprattutto della prima metà del Novecento, mi
sento sempre aperto: questa poesia è ancora capace di meravigliarmi e
commuovermi. Ho l’impressione che gli arabi si stiano dirigendo in un luogo che
gli altri hanno abbandonato da oltre un secolo”.
Questo testo è ripreso dal libro-intervista “Oltre l’ultimo cielo”, dell’ormai
scomparsa casa editrice Epoché, del grande poeta palestinese Mahmud
Darwish. Ora trasformate la parola “araba” in “italiana” e scoprirete che, più
o meno, è il resoconto della nostra situazione poetica in questo periodo di
conclamata vanità letteraria e depressione internautica.
Non ci
sono scuse: il dramma è scolpito nei nuovi centri della cultura (Facebook) e
nei sofismi dei più furbi (Riviste, Case editrici, Amicidegliamici). Nel primo
caso troviamo un’improvvisa e folta popolazione di giovani, maturi e anziani
uomini che per millenni si sono nascosti agl’occhi del mondo e che
improvvisamente, entrando in quelle comunità di ubriachi cazzi nostri ovunque,
hanno trovato l’eldorado: finalmente possono postare al popolo di internet la
loro poesia o pubblicizzare il loro libro pagato a rate – “perché ho acquistato
(da contratto; obbligatoriamente) delle copie del mio libro”. In poche parole,
hai venduto la tua arte oggi per riacquistartela domani. Quindi la poesia è
diventata un mercato nero dove tutti possono acquistare, gratuitamente nel
maggior dei casi, delle opere o vendere, o donare, le proprie; senza regole e
senza merito.
Nel
secondo caso, troviamo invece quei misteriosi posti dove, invece, si deposita
il nuovo potente sistema, chiuso a chiave, dove si annidano i vecchi professori
e i nuovi astri nascenti. I luoghi possono essere una Einaudi, una Lietocolle,
una Mondadori, una Marcos y Marcos o una Crocetti Edizioni. I vecchi possono
essere un Buffoni, un Testa, un Cucchi, una Gualtieri, un Piersanti,
un Magrelli, un Risi, un Vitale. E questo è il primo punto. Poi ci
sono altri luoghi. Come la rivista “Poesia” o la rivista “Le parole e le cose”
o “Poeti e Poesia” o “Atelier”. E qui dentro, oltre ai vecchi, che sono ovunque
e senza fissa dimora, troviamo gl’astri nascenti: Matteo Fantuzzi, Maria
Borio, Carlo Carabba, Roberto Cescon, Tommaso Di Dio, Davide
Nota. Questi ed altri sono coloro che credono o che vengono definiti “i più
importanti e giovani poeti della poesia contemporanea italiana”.
E non mi sto inventando nulla: lo si legge tranquillamente in giro.
Ma visto
che ci troviamo in un paese dove i concorsi non valgono nulla (e vengono vinti
da parenti o vicini di casa), dove le pubblicazioni sono a maggioranza a
pagamento e hanno un peso medio di tre mesi in uno scaffale remoto, o in basso,
di tutte le librerie; dove le manifestazioni e i festival letterari sono un
ritrovo di quattro amici al bar e un matrimonio festante in una chiesa lì
vicino; dove, rasentando la terra, i gusti sono gusti; e se nessun recensore è
degno di nota e di rilevanza a meno che non sia un amico o un guadagno da
quattro o cinque soldi (le recensioni sono sempre e tutte bellissime): chi fu
colui che impresse nel gergo comune tale medaglia di merito a così giovani e
belli figlioli – ormai già ricurvi dal vecchio?
L’ERA DEL
CAOS. (Sbocciano dal nulla, seminati e coltivati da un contadino anziano.
Siamo nell’era del caos. Tutto è possibile. Tutti sono re e regina in un regno
autogestito, autogovernato, autolodato.)
Spingiamoci
nelle fondamenta. La scuola. Qui si formano le menti e le prime passioni. Qui
si creano le primarie emozioni verso o contro la lettura e la scrittura. Ma c’è
una nota stonata nella struttura con la quale si crescono tali cose. Cominciamo
a dire che secondo le ultime statistiche Istat (2013) sulla lettura in Italia i
giovani lettori tra i 14 e 17 anni sono il 39,4 percento, mentre quelli dai 18
fino ai 65 sono sotto la quota del 50. Queste persone hanno letto almeno un
libro nell’arco di un anno al di fuori dei testi scolastici o lavorativi. Una
miseria. Che riconduco, anche per esperienza personale, alla scarsa attenzione
derivante dal piano di studi che annualmente spinge alla noia milioni di
giovani ragazzi a invaghire in un passato troppo remoto e, in parte, già
conosciuto per film, fiction e documentari presenti ovunque, ogni dì.
I giovani
studenti si trovano alle prese con mesi di Petrarca, tre anni di Dante, due di
Manzoni, un anno del famoso trio Montale-Ungaretti-Quasimodo. Per non parlare
di Storia, ferma al 1945. Come se il mondo fosse finito quel giorno. Bensì è il
contrario. La nostra vita è partita dopo quel giorno. Con Fellini, poi gl’anni
di piombo, la DC e il PCI, il Vietnam, la Guerra Fredda, il Crollo del muro di
Berlino. E la guerra della Russia in Afghanistan, quella del golfo. Berlusconi
e Prodi e D’Alema. Il presente che è la storia degl’ultimi vent’anni. E questo
vale per la letteratura: Calvino, Pasolini, Gatto, Neruda, Lorca, Szymborska. Orwell. Camus. Carver. Oz. Saramago.
Faccio
solo degli esempi, per dire che un giovane se spinto verso la sua storia
troverà più interesse verso un campo che è stato svuotato dalla povertà di un Moccia o
un Volo o un Gramellini. Perché se questo è il livello sul quale
si basa la grandezza e il mercato del nostro paese, vuol dire che la scuola sta
sotto sviluppando i suoi allievi e il loro futuro.
E questo non è solo colpa degl’insegnanti o della politica. Ma viene anche
dagl’autori di libri che negl’ultimi cinquant’anni hanno disabilitato ogni
impulso di ribellione e di coscienza collettiva, divenendo narcisisti,
biografici, invidiosi; indifferenti e disinteressati del lettore e della
società che dovrebbero rappresentare e interpretare.
LA POESIA
CI SALVERÀ. (Sono i poeti ad ucciderla.)
Leggere Pasolini al parco fa schifo. L’ho pensato mentre lo facevo.
Ho dovuto richiudere “Le ceneri di Gramsci” e perdermi in un albero che era un
anfratto stempiato tra decine di olmi in primavera.
Pasolini fu quel che fu, come l’ideologia sparsa nelle sue poesie. Più attuali
quelle dialettali dove il quotidiano esprime un malessere e un’ipocrisia
tutt’ora presenti – lavoro precario e sottosviluppato, borgate putride, tabù
sessuale – e dove la lingua si fa più snella e ritmica.
Perché la poetica di Pasolini è dura e ricca di ridondanti pensieri a passeggio
per Roma o per le vie d’Italia. È un qualcosa di descrittivo all’ennesima
potenza. È un netto taglio tra la poesia ornamentale e simbolica di Montale e
quella sentimentale e patriottica di Majakovskij. Per il 1950 e dopo, è un
qualcosa di diverso perché è politico e detto con parole comuni, senza paura e
senza violenza di gergo (ed è proprio questo linguaggio alto a rendere, spesso,
la poesia un po’ troppo secca di pathos e monotona).
Ci voleva
una svolta, lui ne è stata una.
Peccato che con lui si sia incarnata l’intera storia poetica che giunge fino ad
oggi.
Molti poeti contemporanei tendono a nominarlo per ogni cosa venga detta o fatta
nella poesia odierna, come se fosse una scusante o l’unica soluzione possibile.
E, mio malgrado, questo vale anche per il signor Montale. Sicuramente un
incredibile poeta, fino ad “Ossi di seppia”. Poi è una ripetizione, sempre più
striminzita, di quell’ermetismo che si è fatto incendio e che mai ha smesso di
bruciare. Come per Berardinelli: “dopo Montale non c’è nessun altro poeta”.
Quindi il capitolo è chiuso. Ma non è né può essere così.
Uomo di
grande intelletto e di grande forza espressiva fu Ungaretti (forse
l’unico, nel trio con Quasimodo e Montale, che meritava il Nobel). Poeta di
grande trasporto sociale e meditativo fu Costabile. Giudici lo fu per i primi
due libri, “La vita in versi” e “Autobiologia”. Poi divenne ripetizione. Come
accadde per Caproni, Luzi, Penna, Saba, Calogero, Bertolucci.
Il
problema, che ci attanaglia tutt’oggi, è la lirica e le sue costrizioni
metriche e sillabiche. E anche se i temi sono cambiati, permane il desiderio di
incatenarci in un Pascoli o in un D’Annunzio, come se rievocare sempre gli
stessi matusalemme come principi da cui alimentarsi (per diventare loro) fosse
la sola possibilità per fare buona poesia.
Mi fermo a leggere dei nuovi futuristi, della chiusura ermetica di una Biagini o
le finte-pop-nerudiane della Calandrone o intime e diaristiche della Gualtieri.
Mi fermo a comprendere lo scarso umorismo di un Krumm e le poesie
tecno-scientifiche di Sanguineti. Mi fermo ad ascoltare le rimelle della Cavalli (sempre
meglio di Piersanti o di Marcoaldi – tremendo) o le montaliane e
lamentose di Cappello o quelle lacrimose in vecchiaia di Giampiero
Neri. Mi fermo a scoprire giovani autori che sanno di poco o nulla perché hanno
letto poco o nulla (e quello che hanno letto è qualcosa sparso su internet o in
qualche inutile antologia che non dice niente del lavoro di un poeta – tranne
quello che di lui si vuole dire).
Cercando
il vuoto siderale in un io depresso e sterile (come la coppia Cucchi-Merini),
i nuovi autori si sono rannicchiati sui propri smartphone a vagheggiare in un
tetro infinito – di cui Leopardi detiene ancora il monopolio (anche se Santi ha
fatto un buon lavoro con il suo “Mappe del genere umano”) – che si inebria in
festival e coppe e targhe fatte di quella medesima pasta nera.
In Italia
ci sono oltre 1800 concorsi letterari all’anno. I due terzi di questi
sono a pagamento, spesso per motivi non dichiarati nel bando. Molti di questi
bandi sono fatti a solo scopo di lucro e da case editrici. Capita che la giuria
sia sconosciuta fino alla giorno della premiazione. Inoltre, succede che
spesso, coloro che bandiscono un premio gratuitamente, successivamente
richiedano un contributo per entrare nell’antologia del concorso (dove ci
finiscono tutti i partecipanti). Può avvenire che questa richiesta avvenga
prima del risultato finale, e questo – si comprenderà facilmente – comporterà
un giudizio positivo o negativo per la giuria.
Ora, per
spiegare meglio queste cose, farò due esempi che mi sono realmente accaduti.
Tempo fa ebbi una menzione d’onore nel concorso “Premio Wilde” di
Bergamo. Dopo aver pagato il biglietto del treno per raggiungere la città
(perché difficilmente il concorso include, almeno, un rimborso per il vitto e
il trasporto), mi sono ritrovato ad assistere ad una scena surreale e che mi ha
spinto ad andarmene urgentemente: uno dei giurati era qualcuno del consiglio
comunale che una volta presa la parola disse: “Sono felice di aver fatto parte
della giuria anche se, prima d’ora, non avevo letto mai una poesia”.
Pochi mesi
fa, invece, sono stato contattato dalla presidentessa di un concorso siciliano
che mi comunicava di essere il vincitore. Era gratuito e il primo premio era
composto da un assegno di 100€ ed un attestato. Però, dopo aver esternato la
mia impossibilità ad essere presente il giorno della premiazione, mi è stato
comunicato che non avrei ricevuto nulla se non mi fossi presentato. Non andava
bene neppure una delega. Quindi fui scartato.
Questi due esempi confermano la ridicola struttura di questo sistema. Tutto
funziona sul “paga e vinci” e sulla mediocrità. Certo non tutti i premi sono
uguali. Ma il novantacinque percento di essi, con un giro d’affari che supera
gli 11 milioni di euro, per esperienza lavorativa e di crescita e curricula non
valgono nulla.
LA POESIA
CONTEMPORANEA È DECADENTE. (La poesia contemporanea è un Io morboso,
diaristico, privo di un linguaggio ricercato, assente di passione e
sentimentalismo civile, umano; banalizzato dai media e da un disfattismo
culturale imbrogliato nell’auto pubblicazione vanitosa; decadente; Pound quando
lesse la prima stesura de “La terra desolata” di Eliot gli disse di
buttarla: lui lo fece e scrisse quel che scrisse poi.)
Do parola
ad Edoardo Zuccato: “Oggi la situazione è molto diversa, aperta senza
inibizioni ai modi di scrittura più diversi. Non si può negare, tuttavia, che
l’ideologia di quel passato recente sia dura da smaltire, non solo per il fatto
che i ‘maestri’ di allora hanno provveduto e provvedono a riempire di loro
seguaci gli ambienti editoriali e letterari. Il modo migliore per sfuggirvi, comunque,
resta quello di varcare i confini nazionali, studiando le lingue straniere e
scoprendo che i dogmi della nostra tradizione recente semplicemente non
esistono. In Inghilterra e in Polonia, in Irlanda e in Scandinavia, in Nord
America e nei Caraibi si sono scritte e si scrivono poesie di generi che in
Italia erano stati dichiarati impossibili e fuori tempo.
C’è una
sola cosa sicura: che la poesia valida, destinata a durare nel tempo, dipende
dall’importanza di quello che viene detto e dall’efficacia con cui viene detto,
efficacia che è data dall’esattezza sommata alla forza dell’espressione.
L’esattezza dipende dalla padronanza dell’arte poetica, cioè della lingua e
della tecnica, che si può imparare con la lettura e l’esercizio, mentre la
forza è frutto della passione, che non si può imparare o fingere. Come il
coraggio di Don Abbondio, la passione, cioè la motivazione profonda, uno non
può darsela. È questa la ragione per cui molti poeti, ieri come oggi,
invecchiano male”.
La poesia
straniera è un forte campo di esperimenti linguistici. Lo si può vedere con la
poesia araba strutturata su un canto biblico e una destrutturazione estetica
della parola (questo vale anche per i poeti nordafricani, tranne che per
l’Egitto ancora racchiuso in una poesia tradizionale che da poco si sta
affacciando su quella slabbrata del rap e dello slam; un po’ come avviene anche
in Iran).
Lo si può
constatare con la poesia saggistica di Ulf Stolterfoht o con la
poesia come linguaggio corporale della Draesner. Lo si può dire per la
poesia-gioco-canzonata-metropolitana di Paul Muldoon. Possiamo
apostrofarlo con la poesia metafisica di Mark Strand o quella
sarcasticamente filosofica e quotidiana di Billy Collins.
Ma potrei citare Federico Garcia Lorca, Pablo Neruda, Wislawa Szymborska, Lawrence
Ferlinghetti, Jack Hirschman, Geoffrey Hill, Derek Walcott, Les Murray, Mahmud Darwish,Charles Simic, Bei Dao, Robin Robertson, Adonis, Abbas Baydoun,
tra gli over sessanta (o già defunti). Al di sotto troviamo Olga Orozco, Mariano Peyrov, Islam Samhan, Liu Xiaobo, CarmenYanez, Olvido Garcia Valdes, Nathalie Quintane, Pierre
Alferi, Steffen Popp.
La poesia
straniera non si nasconde sotto l’ombrello malconcio del passato, anzi cerca di
evadere dagli schemi preconcetti e viziati dal mainstream culturale. Dal tema
civile fino a quello astratto, ognuno percorre una strada verso luoghi già
scoperti, ma ancora da esplorare. Perché la parola non ha mai fine.
(Ho letto
dei buoni libri che vi consiglio: “Stelle variabili” di Vittorio Sereni,
“Elogie del terrore” di Mario Lucrezio Reali, “Mappe del genere umano” di Flavio
Santi, “Concessione all’inverno” di Fabio Pusterla, “Le stelle chiare di queste
notti” di Ferruccio Brugnaro, “Croce del Sud” di Andrea Garbin,
“Dodici” di Francesco Teriaca.)
Fine.
SE PARLO È PERCHÉ… Questo
articolo nasce come risposta al commento di Matteo Marchesini uscito sul
Foglio il 16 marzo dell’anno scorso col titolo “Quel che resta della poesia”. È
scaturito dalla necessità di aggiungere dei punti che, per me, sono importanti
per poter definire quella frase così perentoria che il titolo esprimeva. Matteo
Marchesini fa un’ottima ricognizione della poesia moderna, affermando cose che
anch’io condivido e che ho sentito dire a bassa voce a molti altri. Però, forse
perché ha la stessa età dei suoi compagni, ha tralasciato i poeti contemporanei
– i cui nomi, alcuni certo, li ho all’inizio citati. Inoltre, come sempre
accade, si sofferma unicamente sulla poesia italiana senza affiorare a quella
internazionale, anche solo europea. Come se la poesia fosse solo una questione
nazionale senza influenze esterne o possibilità d’uscita, un po’ come accadde
nella prima metà del secolo scorso.
Nella
prima parte del suo articolo, a un certo punto, dice: “In un paese in cui tutti
scrivono poesie e nessuno le legge, riuscire a farsi chiamare poeti sembra
troppo facile, cioè irrilevante. La causa e insieme l’effetto di questa
situazione è la progressiva perdita di distinguere i poeti veri”. È
un’affermazione sacrosanta, ma lasciata morire lì perché l’articolo non genera
soluzione né pretende di cercarne. In effetti, il testo si evolve in uno
sguardo critico sulla critica e sull’interpretazione di poeti che,
effettivamente, “ignorano la contemporanea poesia italiana” e “la conseguenza è
che i poeti veri vivono una condizione frustante di mancato riconoscimento”.
Ed ecco
perché questo mio commento. Perché non voglio dire per poi scomparire. Se parlo
è perché ho letto e non mi è piaciuto ciò che ho letto. Questo vale anche
contro di me e la mia poesia. Di certo ci sono molte cose da dire e da
sistemare. Più di oggi che di ieri. Un sistema marcio e ridicolo che sta
completamente allontanando tutti da tutti. Annoiando. Nel silenzio più acuto,
dove tutto si fa e si disfa.
Infine,
leggendo quest’articolo e guardandomi in giro, ho compreso che la maggior parte
dei poeti contemporanei si interessa troppo della questione critica di tutto il
perimetro poetico nazionale, ma così tanto da distaccarsi dalla propria
scrittura poetica, diventando così non più poeti ma critici cinici sempre
pronti a dire l’ultima parola su ogni cosa che accade nella poesia nostrana.
Per fare
qualche esempio: Davide Nota si conosce più per i suoi articoli o per
le recensioni o per il suo sito Poesia 2.0 che per la sua poesia.
Così vale anche per Marchesini o Antonio Bux. I nomi di Matteo
Fantuzzi o della Bono rimandano a persone che si interessano di poesia
(scrivendone su riviste o travestendosi da giudici per qualche concorso
letterario) e non di persone che scrivono poesie.
Molti di
loro rientreranno in qualche antologia come quella anniversaria della casa
editrice Marcos Y Marcos creata e gestita da Buffoni, che solo pochi
acquisteranno e pochissimi leggeranno (forse solo coloro che si interessano di
poesia). In definitiva, il loro impegno si rivolge verso la poesia e non con la
poesia. Neppure entrambe le cose insieme.
Accade da
sempre. E questo è il male più grande.
(Apparso l'8 maggio 2014 su Storie, Rivista internazionale di cultura)